Approcci della psicologia umanistica nella consulenza ai migranti
di Ivan Carlot
Counseling e migrazioni
Il Counseling si presenta oggi, dentro la terza generazione dal suo primo sviluppo, come un complesso di conoscenze, di pratiche, di cure e di prendersi cura, di declinazioni vastamente attive. Senza abbandonarne il carattere originario, coloro che si confrontano con lo sviluppo del Counseling possono coerentemente privilegiare le vie del dialogo tra saperi ed esperienze, tra nuove teorie e inedite applicazioni. Questo stile si è affermato fin dall’inizio e sta nel nucleo stesso della psicologia umanistica, si è alimentato nel clima di ricerca alternativa negli Stati Uniti d’America degli anni Sessanta e Settanta, appare ancora oggi pieno di vitalità e promettenti prospettive a livello internazionale.
Nell’ambito della scuola ASPIC (l’Associazione per lo Sviluppo dell’Individuo e della Comunità) questa inclinazione è ben presente e formulata[1], consente di ampliare e diffondere un principio inclusivo rispetto a vari ambiti dei saperi, promuove un approccio integrato e pluralistico che rivolge il suo interesse tanto a nobili tradizioni quanto ad accurate ed innovative sperimentazioni.
Le migrazioni si presentano ancora, e per molti interpreti sempre più, come uno dei grandi temi e cardini del nostro tempo; dunque con la potenza condizionante sulla vita delle persone. Alla grande attenzione rivolta a questo fenomeno corrispondono numerose ed intense iniziative legislative, economiche, di controllo, di studio sociologico e sui diversi pericoli. Una considerazione secondaria è riservata invece all’influsso sull’arte (musica, letteratura, cinema, etc.), sulle conoscenze, sulle lingue e le religioni, sulla salute e la ricerca del benessere. Eppure le dinamiche migratorie, comportando una molteplicità di elementi caratterizzanti, possono essere avvicinate da approcci capaci di coglierne la complessità. Il lavoro con migranti già trova, e può ulteriormente trovare, un legame e una più efficace evoluzione nel confronto con il Counseling. Gli strumenti della psicologia umanistica sono opportunamente implementabili nelle pratiche quotidiane di accoglienza dei migranti e, d’altro canto, forniscono importanti aperture nell’affrontare i casi difficili e operando congiuntamente ad altre professionalità nei percorsi di cure.
La valorizzazione dell’ascolto, dell’ecletticità, degli aspetti narrativi ed espressivi, facilita l’avvicinamento tra appartenenti ai diversi sistemi culturali, l’instaurarsi tra questi di relazioni, lo scambio di conoscenze e di servizi. Le migrazioni sono inoltre caratterizzate da momenti di intensa esposizione all’ignoto, al rischio, allo spaesamento, alle fatiche; e parallelamente di inclinazione alla scoperta, all’attività e all’apertura. L’approccio della psicologia umanistica, puntando sulle forze possedute dalla persona e sull’innata spinta alla crescita[2], consente percorsi di appoggio non invasivi, più rapidi ed efficaci, rivolti ai migranti che tendono a presentarsi come bisognosi d’aiuto o di ulteriori stimoli.
Il ragionamento qui delineato intorno al Counseling interculturale segue un desiderio diverso dal declinare la professione ritagliandone una versione specifica, cercando piuttosto di incontrare alcuni passaggi al cuore stesso delle sue teorie e delle sue pratiche. Non vengono dunque affrontate argomentazioni specifiche sul termine interculturale, ma introdotti i significati variabili dei molteplici incontri tra appartenenti a diversi sistemi culturali, suggerendo alcuni benefici che l’approccio può apportare in quegli incontri. La proposta nasce in virtù di un duraturo lavoro sulle tematiche migratorie e a contatto con migranti, dall’intento di incrementare le opportunità di racconto, di scelta e di cure in tale ambito.
Intorno alle migrazioni
Partire da sé comporta sovente una relativa minaccia all’oggettività delle proprie affermazioni, un esercizio aggiuntivo nel sostenere una o più tesi. Per me tuttavia, oltre che costituire una riconosciuta inclinazione, si concretizza rispetto alle tematiche qui affrontate come uno sfondo rilevante, che ho imparato lentamente ad intravedere. Sono nato italiano da genitori migranti, in un altro paese; sono entrato in Italia all’età di due anni sentendomi un estraneo: non parlavo volentieri, ma quando lo facevo non avevo il dialetto a fornirmi l’accesso immediato ai giochi e alle complicità. Ho poi su questo versante ricordi felici, soprattutto degli sconfinati racconti dei luoghi lontani, delle sofferenze e incomprensioni, delle situazioni ridicole e paradossali. Ho trascorso l’infanzia circondato, oltre che dai racconti antichi e paesani dei nonni che non erano partiti, da quelli dell’estero dei miei genitori e dei loro amici. Mezzo paese, e molti in quelle zone, condividevano l’immaginario del viaggio, della preparazione della valigia, dell’impatto con un clima diverso e con lingue estranee; costumi diversi, lavori d’oro e avventure impossibili.
Quelli che tornavano e ripartivano si aggiornavano sulle vicende di qua, arricchivano tutti con quelle di là[3]; quelli che tornavano per sempre spesso si erano mescolati ad altri e altre ancora, per sempre; non potevano trattenersi nei tentativi di somigliarsi, di aiutarsi e superarsi, dal gusto di scoprire infinite differenze e spiazzamenti, di ridere e raccontare l’avventurosa disgrazia della migrazione. La Via Emigranti passava accanto alla casa dei miei genitori ma, fino a qualche anno fa, a chi mi chiedeva come fossi arrivato ad occuparmi di tematiche migratorie, raccontavo sinceramente un’altra storia, adducendo invariabilmente l’elemento del caso!
Lavoro a contatto con migranti da anni e, in quelli più recenti, mi sono occupato principalmente delle tematiche d’asilo e dei rifugiati. Queste esperienze mi permettono di esprimere, innanzitutto, un vissuto personale che testimonia difficoltà e opportunità nelle migrazioni. Credo che l’inversione di tendenza in Italia, nel tempo delle ultime due generazioni, da terra di emigranti fino a diventare terra di immigranti, comporti molte buone e interessanti occasioni[4]. Non mi soffermo qui su tali elementi[5] ma intendo accennare alle prime scelte lessicali, da cui derivano consapevolmente alcune conseguenze e impostazioni.
Trovo quasi sempre scorretto, e particolarmente in corrispondenza alle generalizzazioni, usare i termini immigrati e immigrazione in quanto tendono a definire il senso di un tragitto e un obiettivo conclusi: da là a qua. Oltre a produrre e diffondere, nella maggior parte dei nativi e dei residenti, la percezione dell’invasione, questa definizione blocca le conoscenze e raramente corrisponde ai progetti, alle aspettative, alle necessità o alle scelte di chi arriva e transita nel nostro paese. Quasi invariabilmente quelle persone sono in movimento; sono partite da più ampi movimenti, che coinvolgono temporalmente costellazioni familiari, amicali, di vicinato; innescano ulteriori spostamenti nello spazio, nelle concezioni e nelle economie, ancora su tempi maggiori di quelli personali[6]. Tale instabilità mi sembra meglio rappresentata dalla parola migranti, con le eventuali specificazioni provvisorie, e pur con vago ossimoro, di emigranti e immigranti.
Ad un approccio di Counseling interculturale conviene mantenere ben presente la dinamicità del fenomeno, l‘instabilità delle persone e la molteplicità delle figure, sia per comprendere più ampiamente e realisticamente i passaggi che per gestirne gli effetti, promuoverne le modificazioni e le evoluzioni. Tale apertura, ben inscritta nell’atteggiamento pragmatico prevalente all’interno della psicologia umanistica, richiama una considerazione altrettanto coerente e impegnata verso gli spunti teorici e le conoscenze in generale. Si tratta della condizione della continua ricerca in ambito interculturale, in cui i saperi e gli effetti di cura si possono trasmettere solo se la direzione dei passaggi è libera e non predeterminata. Ciò non significa abbattere le diversità e i ruoli, ma più opportunamente relativizzarne e contestualizzarne i significati, offrire spazio alle variazioni e improvvisazioni, moltiplicare creativamente gli strumenti di comunicazione, affinare le strategie di avvicinamento.
Concepire le migrazioni come fenomeno complesso e dinamico favorisce fin da subito, sul primo versante qui impostato, le possibilità e potenzialità di accoglienza. Gli operatori e i servizi che maggiormente hanno contatti e responsabilità in materia possono trarre grande beneficio dalla preparazione secondo un approccio centrato sulle persone. Uno stile orientato all’ascolto, non inquisitorio, non valutativo e non interpretativo, capace di moderare attraverso le tecniche della riformulazione la spinta a confezionare le soluzioni e a dispensare sostegno, è un criterio propizio per avviare il difficile lavoro di comprensione tra persone appartenenti a culture diverse.
Troppo spesso chi opera in questi contesti sopperisce con la buona volontà e lo spirito volontaristico alla carenza di professionalità. Natale Losi ha sintetizzato con efficaci argomentazioni le raffigurazioni dei fantasmi per questi atteggiamenti, che sovente traggono spunto da nobili intenti, generano diffusamente azioni apprezzabili, e altrettanto spesso portano implicazioni pesanti per gli operatori e per gli utenti, per la funzionalità generale delle applicazioni: La parola fantasma viene usata qui per riferirsi agli elementi invisibili inclusi nel ruolo complesso di ogni persona in posizione di potere su un’altra persona. Questo comprende attitudini che accompagnano un tale ruolo, come ad esempio la combinazione tra la pietà e la cura. (…) Gli ingredienti di questo tipo d’interventi sono l’idealismo e la passione così come la delusione e la frustrazione, ed è ciò che tende a creare il terreno fertile a partire dal quale questi modelli e fantasmi emergono. L’attrazione per questo tipo di lavoro risiede probabilmente nella contemplazione e il fatto di condividere il desiderio di onnipotenza così come la paura dell’impotenza; il desiderio d’essere (almeno nell’intenzione) qualcuno che porti la vita, e la paura (involontaria) di ripetere gli effetti distruttori e d’infliggere un’ulteriore dolore[7].
I modelli incarnati vanno dal formatore, colui che offre buoni modelli e dà forma, al terapeuta, che cura e ristruttura, il maieuta dà vita, facilita e fa da levatrice, l’interprete porta la consapevolezza e la giusta interpretazione, il militante inizia all’azione, spinge al movimento e al cambiamento, il riparatore s’ingaggia per migliorare e rimediare, il trasgressore è affrancato dai tabù e dai divieti, il distruttore agisce anche inconsciamente e produce perturbazione negli altri.
Utilizzando queste argomentazioni si tratta, per l’operatore, non necessariamente di sfuggire ai modelli; forse non è nemmeno possibile, pena l’inazione. Si tratta piuttosto che egli si renda consapevole del fantasma che agisce prevalentemente o in quel momento, e quindi di farlo svaporare in quanto tale, assumendo azioni che abbiano dei contorni trasparenti, senza fossilizzarsi in una sola delle figure. L’inconsapevolezza, invece, tende a portare l’operatore di questi contesti all’interno della costellazione della violenza, incarnando uno dei tipi ideali quale salvatore della vittima, contro un qualsiasi aggressore.
Come tutti i racconti infatti, anche quelli di chi chiede aiuto non diffondono un flusso puro e neutro di spiegazione degli eventi, ma si costruiscono in funzione delle esigenza e delle possibilità date dal contesto. Se la rappresentazione funziona, ben oltre la consapevolezza o inconsapevolezza di chi si propone come vittima, può scattare piuttosto automaticamente quel tipo di costellazione, che tende ad intricare progressivamente gli interventi, allontanando le persone coinvolte dalla responsabilità reale, dal cambiamento e dalla crescita.
Un lavoro personale e una considerazione della dimensione psicologica, opportunamente orientati al pluralismo hanno portato alle prime sperimentazioni e teorizzazioni anche in Italia del Counseling interculturale[8]. L’obiettivo indica infatti l’ampio dibattito intorno all’accoglienza con diverse posizioni rispetto all’integrazione. A me pare avvicinabile all’ambito interculturale e dell’accoglienza dei migranti il concetto di integrazione presente all’ASPIC[9]. In questa visione è attivo un riscontro pragmatico sui fattori comuni in ambito di Counseling o terapeutico, dunque l’integrazione di attitudini basilari trasversali ai modelli e alle tecniche che esercitano un effetto di cambiamento specifico secondo la domanda e il bisogno particolare dell’utente. Ancor più propriamente preme qui sottolineare l’ispirazione verso relazioni armoniche, che favoriscano la libera integrazione di componenti e sfumature nel singolo e nell’insieme. Questo richiamo ad una posizione multipla ed eclettica, comunicativa nel senso della spontanea messa in comune, si radica nuovamente intorno ad un linguaggio non seccamente specialistico e unidirezionale[10].
Portare tali riflessioni nell’ambito delle tematiche migratorie è come rimanere all’interno di uno stesso, ampio e sorprendente, ragionamento e movimento. Offrire accoglienza e orientamento, anche alle persone che si trovano più spaesate e sospese in una terra di nessuno, né là né qua, è compito infinitamente più efficace e gratificante qualora si siano incarnate e strutturate quelle caratteristiche, qualora il migrante sia considerato portatore di altre competenze, utili a quelle dei già residenti, vecchi e nuovi, essenziali nel momento dell’incontro.
I migranti possono vivere momenti di enorme sofferenza e spiazzamento, ma nella maggioranza dei casi compiono il viaggio attingendo ad informazioni e risorse rilevanti, spesso maggiori di quelle in possesso degli operatori dell’accoglienza che pretendono di orientarli e aiutarli. Immaginare le persone in movimento quali poveri e bisognosi può essere uno stimolo edificante, talvolta momentaneamente necessario, ma se diventa una prassi tipica rischia di deprivare di capacità tutti coloro, operatori e beneficiari, che possono regalarne di nuove. Ricordando Rogers, dunque, non si tratta di restituire competenze, perché in partenza è decisivo riconoscerle.
Oltre le migrazioni
Le migrazioni costituiscono anche un fattore di rischio, di esposizione e di vulnerabilità. L’instabilità del migrante, che è forse prima di tutto un principio di disposizione eclettica e alla rapidità nel mutamento, può contemplare un blocco, una crisi, un’involuzione, una malattia. L’essere fuori, così come riesce spesso a dinamizzare i processi cognitivi e di apprendimento, talvolta deprime pure le qualità recepite e ne scombina la logica. Gli elementi di esposizione sono numerosissimi[11], e dislocati lungo tutto il percorso migratorio, soprattutto nei meandri del confronto più stretto con le società d’accoglienza. E’ frequente incontrare persone un tempo sedentarie che, dopo la prima partenza, continuano a migrare. Non sempre questo corrisponde alla scoperta di una passione o alla moltiplicazione degli interessi e, nei casi più gravi, esprime il sopravvento di un malessere, di una stabilizzazione dell’instabilità, di una fuga o nascondimento. Tra le molte e ricche testimonianze sono notevoli quelle contenute in molti romanzi o nell’incantevole genere saggistico e biografico di Arguedas[12].
Nelle migrazioni la fuga può trarre le proprie motivazioni all’origine, o durante il percorso, e persino nell’impatto con i sistemi di cura dei paesi d’arrivo o di transito. Ogni cultura possiede un sistema di cure che, proprio per questo, risulta più o meno mobile, vario, in divenire. Le persone che si accostano dall’esterno possono incontrare un fattore di accentuazione del dolore e dell’incomprensione nel sistema di cure inusuale. Come ogni sistema sociale e culturale ha le sue malattie, specie quelle del linguaggio e dell’anima[13], così diversi sono i principi terapeutici e d’aiuto. Il fatto di conoscere o praticare un determinato sistema terapeutico influisce sulla manifestazione patologica. Il linguaggio nomina e classifica, ordina e tende a tracciare i confini del disordine.
Coloro che si confrontano con il disagio dei migranti non possono facilmente sventare le difficoltà di rappresentazione che s’impongono o filtrano nelle pieghe delle traduzioni e presentazioni del dolore. Il dibattito, che sorge e risorge ad ogni incontro o scontro nelle diversità, è ancora aperto tra l’universalismo, che tende a promuovere i valori e i metodi tipici di una società verso tutte le altre e su tutti, e il relativismo, che sposa l’opzione della molteplicità fino a diffidare delle mescolanze. Vi sono, inoltre, importanti variazioni e specificazioni, tanto all’interno di una sponda quanto dell’altra, e in quelle che tendono a recuperare in entrambe strumenti propositivi, efficaci e corretti.
Molte riflessioni elaborate in ambito multi o interdisciplinare e complementarista possono essere proficuamente rivisitate e rivalutate all’interno dell’approccio pluralistico integrato Gestalt Counseling. L’attenzione alle zone di frontiera toccate dalle persone, dai saperi e dai saper-fare, con le implicazioni che questi contatti talvolta brucianti comportano, si avvicina alle inclinazioni originarie della psicologia umanistica, concorda con lo sviluppo delle sue ricerche e applicazioni nel mondo.
Ho accompagnato in questi anni diversi richiedenti asilo e rifugiati che hanno vissuto periodi di crisi profonda. Alcuni avevano già conosciuto uno o più ricoveri psichiatrici, altri ne erano o ne sono ancora sottoposti; comunque l’accompagnamento prevede una vicinanza nei momenti di cura e di terapie. Dovendo fronteggiare queste situazioni ho trovato un supporto rilevante e stimolante nell’approccio del Counseling. Il mio compito si è spesso delineato come fattore di chiarimento, di maggiore consapevolezza nel rapporto con le persone e con le istituzioni coinvolte.
L’intervento di Counseling in un contesto interculturale tanto delicato può cercare di attenuare, in collaborazione con medici e altri operatori, le conseguenze più incisive e durature dei ricoveri, promovendo passaggi più rapidi dalle strutture sanitarie ai contesti ordinari, ma ugualmente o più protettivi, favorendo assunzioni controllate e decrescenti di farmaci. In taluni casi, e dove possibile, la riduzione dei tempi di una fase critica acuta, dopo averla comunque gestita, può erodere lo spazio sempre incombente di equivalenza tra strano e straniero e dare buoni risultati, accrescere la disponibilità al recupero o ad un appropriato cambiamento. Non si tratta di diffondere una contrarietà alle prassi della psichiatria, e tanto meno una sfiducia pregiudiziale verso l’efficacia dei farmaci; piuttosto, e con riferimento alle argomentazioni riportate finora, una fiducia nella relazione e una scommessa sulla dinamicità dei processi.
Si può tenere presente in quelle circostanze un principio della Gestalt chiedendosi, e cercando conseguentemente di porre le migliori domande agli interessati, quale sia il bisogno in quel momento. Su quelle persone in crisi, ammalate e portatrici di disordini più ampi e ad altri, si concentrano invariabilmente molte attenzioni e intenzioni, preoccupazioni. Questo modo di occuparsi di pazienti porta spesso ulteriore disordine e una sovrapposizione di bisogni e strategie, di interpretazioni, cure e rivendicazioni, dimenticando il bisogno originario manifestato dalla persona, nonché quelli emergenti nel percorso successivo. Partire dalle sensazioni nel momento presente, offrendo delle opportunità di ascolto e riconoscendo nelle figure che emergono i punti d’appoggio importanti per le persone, produce situazioni molto diversificate ma efficaci. La Gestalt, suggerendo lo stare a contatto con le emozioni, smussa le pretese contrapposte o diversificate, può sciogliere le paure dello strano comportamento e alludere ad una consapevolezza immediata, o da raggiungere con pazienza.
L’agire non soltanto su una persona, ma sull’ambiente, nella costruzione o ricostruzione di relazioni empatiche, congruenti e solidali, insieme all’ammalato e ai suoi amici, ai medici e agli operatori, comporta significativi percorsi positivi. Le persone in difficoltà, sentendosi contenute e non costrette, eventualmente e nuovamente messe a contatto con amici, conoscenti, vicini linguisticamente e culturalmente, inserite presto nelle relazioni di racconto, con la fotografia, il teatro, la formazione e il lavoro, riprendono sovente il loro buon cammino.
Alcuni motivi di Counseling Interculturale
Il Counseling interculturale, secondo questa prima sagomatura, mette al centro le relazioni. Non solo classicamente la relazione tra counselor e cliente, nelle sue variazioni operative, o quella ad un tempo più ampia ed esplicita promossa dalle scuole sistemiche[14], ma anche quelle tra sistemi culturali. Per segnarne dei rilievi più marcati risulta significativo partire dalle caratteristiche di fondo della psicologia umanistica. Il Counseling interculturale implica infatti una buona propensione e un allenamento all’ascolto; un ascolto attivo, ampio, delle parole e nei silenzi, dei particolari e dell’insieme, di se stessi e degli altri; significa calarsi in una condizione di sapere di non sapere, di apertura al nuovo, allo sconosciuto, all’incomprensibile, all’altrimenti fastidioso o riprovevole, o sfuggente, per sviluppare l’ascolto attraverso l’ascolto, senza imporre e senza escludere.
E’ questa una concezione e una disposizione contenente un principio paradossale e che può, correttamente e liberamente intesa, portare a grandi benefici, ad un monitoraggio costante delle proprie inclinazioni e azioni, ad un equilibrio, a conferire importanza all’incontro nelle professioni d’aiuto. Non si tratta di sfuggire all’opportunità di sapere e ricercare, o di rinunciare all’affermazione trasparente delle proprie convinzioni e conoscenze, tanto meno di misconoscere il valore e l’importanza dei maestri, di chi è sapiente o sa dove cercare. La disposizione del non esperto, che però desidera stare nell’esperienza e viverla appieno, permette di usare il sapere incrementando e raffinandone le qualità, come uno spazio aperto che va continuamente coltivato e vivificato, con cura e stupore. Se lo spirito con cui ci si accosta a quello spazio usuale o irripetibile è simile all’inoltrarsi nel non conosciuto, allora anche i metodi e le loro applicazioni diventano inaspettatamente fecondi.
A tali presupposti basilari, che trovano radici in diversi saperi[15], aggiungo altri elementi. Il primo riguarda la sfera della rogersiana congruenza, la considerazione che una persona disattenta alle proprie emozioni e alla cura di sé, sotto ogni punto di vista, molto difficilmente possa trasmettere l’impulso alla cura e al miglioramento ad altri. Questo significa che il counselor e l’operatore devono ricercare, sviluppare una condizione interiore e d’intorno gradevole, di sobrio benessere; e che nel centrarsi sulla persona non possono deconcentrarsi da loro stessi. Tale opportuna condizione comporta un distacco critico e consapevole dalla logica del sacrificio per fare del bene, del sentirsi bene solo caricandosi delle infinite pene del mondo; una logica che tanto e spesso permea le persone più solidali operanti nelle relazioni d’aiuto.
Il secondo elemento concerne la propensione complessiva a perseguire buoni risultati verificabili avviando la persona all’azione, al cambiamento, rimanendo ancorati alla concretezza e alla specificità. Questo spirito pragmatico consente in principio di moderare, se non di espungere, le inclinazioni interpretative e valutative, per concentrarsi sui risultati del contratto d’aiuto, la relazione nel suo complesso, sull’impegno comune nel raggiungere gli obiettivi enucleati inseparabilmente dalla crescita delle persone coinvolte. L’agire in contesti interculturali si sviluppa virtuosamente con la dote associabile della pazienza, dell’equilibrio nella pratica; capace di diversificare gli interventi tanto dalla passività (rassegnazione) quanto dalla direttività (ostinazione). Un approccio non direttivo, piuttosto che presentare scorciatoie, promuove piccoli esercizi di sospensione delle aspettative, quale correttivo essenziale alle modalità più tipiche di operatori e assistenti sociali, che traducono negli interventi i loro sentimenti spesso oscillanti tra onnipotenza e frustrazione. La pazienza mostra spesso il volto ridicolo delle nostre presunzioni e previsioni, delle ipotesi ed interpretazioni, e crea lo spazio per il fertile riposo in cui le cose si fanno.
In terzo luogo trovo estremamente preziosa, lungo alcune derivazioni che riprendo più oltre, la plasticità di applicazioni dell’approccio tanto al singolo quanto al gruppo. Nelle diverse tendenze riferibili alla psicologia umanistica la considerazione dei molteplici aspetti non verbali, analogici e ambientali, è generalmente posta in primo piano. Da questo punto di vista vi è una originaria distanza dalle psicoterapie classiche, maggiormente o quasi esclusivamente centrate su una struttura prefissata e individuale. Nei contesti interculturali, che marcano tanto vigorosamente e a lungo il rapporto tra l’individuo e gli elementi di esperienza plurale (coppia, famiglia, gruppo, partito, religione, etnia, lingua, ambiente, nazione, etc.)[16], quelle intuizioni della psicologia umanistica risultano estremamente attive ed attuali.
Infine richiamo qui il principio inclusivo, a livello teorico e rispetto a diversi ambiti del sapere, nell’approccio integrato e pluralistico dell’ASPIC. Questo atteggiamento incline all’incorporare, oltre che tenere conto delle ricerche aperte sui fattori comuni[17], promuove una sensibilità orientata alla curiosità e ad un vincolo profondo tra le diverse esperienze conoscitive, le pratiche, le loro diverse applicazioni a seconda dei contesti e dei momenti. Una sensibilità che risulta possibile ed esperibile soltanto se alla base vige una concezione e una consapevolezza relativa, nei significati della relazione. Se l’aiuto o il maggior benessere possono passare attraverso l’alleanza, il legame operativo o terapeutico, tra due persone quali mondi distinti ed irripetibili nella loro particolarità, ciò racchiude l’elemento della comunicazione, di una messa in comune, e indica al contempo l’inesauribile eventualità che accada come contatto tra ogni contesto culturale e ogni singolo appartenente. In virtù di tali variazioni sul mondo interiore ed ambientale forse si riuscirà ad arricchire la nozione di integrazione nel dibattito sulle migrazioni con quella presente nel Counseling[18]. Come forma minima di contributo in questa direzione, e per considerare appieno le difficoltà del lavoro in ambito interculturale, vorrei qui specificare un versante di quanto ora sostenuto.
Facoltà mimetiche
Tra le molte abilità in comune tra il counselor e chi opera in contesti interculturali ne ho finora volutamente trascurata una che mi appare particolare e degna di una riflessione specifica: si tratta del rispecchiamento empatico. Nelle riformulazioni il counselor può, a seconda dei casi, dei tipi, delle intuizioni, offrire al cliente la giusta sensazione di attenzione, di vicinanza, di rispetto. Questa tecnica non invasiva permette l’espressione e chiarificazione tanto dei contenuti problematici quanto delle aspettative; non le soluzioni, dunque, ma le risoluzioni del cliente stesso. Una tecnica che trae spunto da quell’approccio non direttivo a cui ho fatto riferimento. Ma la forza del metodo è rintracciabile tanto nell’impostazione teorica quanto in una predisposizione, ancora secondo le parole di Rogers, verso un interesse e un amore assolutamente non possessivi.
Questa predisposizione, opportunamente affinata, dovrebbe orientare la consulenza nei confronti delle persone, senza aderire al loro essere e manifestarsi e senza allontanarsene. La giusta distanza, pur essendo una misura vagamente imprendibile e misteriosa, risulta altrettanto fondamentale e intuitiva, magica. L’esercizio del come se si estende in continui riverberi, ma trae origine da questo primo ed essenziale orizzonte di relazione. Stando così accanto alla persona è possibile immergervisi, centrarsi su quell’essere e manifestarsi senza perdere la propria centratura. Una descrizione piuttosto semplice per una pratica difficile, soprattutto lontana dalle modalità quotidiane e consolidate di relazionarsi. Solitamente, l’interesse si costituisce contro un altro interesse, oppure sfrutta una zona di disinteresse, mentre l’amore si concentra in modo esclusivo ed escludente; quando entrambi, interesse e amore, sono agiti possessivamente. Anche per questo la proposta rogersiana in quella frase magistrale riflette il valore rivoluzionario che l’autore, ad un certo punto e cautamente, si attribuiva.
Cos’è dunque che spinge o richiama il counselor al rispecchiamento empatico? Come arriva a quel magico equilibrio? Alle molteplici sfumature qui accennate, e mentre altre vanno sfuggendo, vorrei aggiungere un elemento che mi appassiona, ovvero la sensazione e l’idea che a muovere verso quell’equilibrio contribuisca una componente mimetica: La natura produce somiglianze. Basta pensare al mimetismo animale. Ma la più alta capacità di produrre somiglianze è propria dell’uomo. Il dono di scorgere somiglianze, che egli possiede, non è che un resto rudimentale dell’obbligo un tempo schiacciante di assimilarsi e condursi in conformità. Egli non possiede, forse, alcuna funzione superiore che non sia condizionata in modo decisivo dalla facoltà mimetica [19].
Senza seguire le tortuose e illuminanti argomentazioni di Benjamin, che pure alludono potentemente ad una via analogica alla lingua, alle arti, all’apprendimento e alla trasmissione delle conoscenze, vorrei segnalare almeno un duplice versante del mimetismo. Il primo, semplificando, è rappresentativo e riguarda l’imitazione. Nella Grecia antica era l’arte dei mimi e degli attori, quelli da strapazzo e contraffattori, e quelli incensati che riuscivano ad immedesimarsi nell’altro o nell’elemento naturale, ad esprimerne l’essenza attraverso l’aperta e geniale interpretazione posturale, musicale, formale. La facoltà mimetica non è qui un nascondimento, il criptico, bensì il manifestare l’altro e manifestarsi in esso, ricordarlo come se vivesse in quell’attimo e luogo, in altra forma. Dunque è un esercizio di radicale intimità, al contempo e teatralmente consapevole della differenza.
Il secondo versante è congiuntivo, dove l’altro, nella sua irriducibile diversità e diversa traccia, mi somiglia. Una delle condizioni per liberare questa evenienza dentro la sfera delle sensazioni è un ascolto ampio. Tuttavia, la provocazione di ogni istante della vita rimanda questa immagine combinata: la diversità nella somiglianza. Questa ipotesi, spesso accennata o promessa dai saperi, arti e religioni[20], può essere praticata e la sua articolazione arriva ad aggiungere, senza soluzioni di continuità, consociazioni per affinità[21]. Se non si esclude in partenza la possibilità di somigliarsi ne consegue un inesausto comporsi di combinazioni. Anche laddove non appare immediata la somiglianza, avvicinando un altro elemento si scorgono aspetti in comune e un principio di comunicazione.
Questo secondo tratto può essere rintracciato trasversalmente negli approcci della psicologia umanistica, quale atteggiamento di fondo e quale risvolto nelle pratiche e nelle tecniche. Specificamente, per quanto riguarda i contesti interculturali, l’ammissione e la comprensione di tutto ciò favorisce il funzionamento della mediazione. Se invece questa viene concepita come traduzione, sia essa delle lingue o delle culture, si stabilisce di provare a capirsi partendo da una condizione non mimetica, dove spesso i mondi e i corpi restano separati; con la frequente conseguenza di capirsi solo nominalmente, oppure ogni parte comprendendo secondo le proprie, e non necessariamente convergenti, strategie e convenienze.
La mediazione mimetica, consapevole delle diversità e delle somiglianze, non presuppone quali siano le une e quali le altre, né stabilisce confini precisi per le lingue, le culture, le concezioni. Si avvia sul terreno del non conosciuto, sollecitando la combinazione di elementi prima distanti direttamente tra loro, oppure accostando l’elemento affine ad entrambi. Nel lavoro dei mediatori e degli operatori interculturali emergeranno frammenti di comprensione o un incontro corale quanto più riusciranno a mettersi nei panni della persona che si presenta loro, unitamente alla capacità di rientrare continuamente nel proprio ruolo, con flessibilità e saggia ironia, in virtù di quel riconoscimento. Tale pratica, promovendo il pluralismo e l’integrazione nei metodi e nel contenuto, può esprimersi con evidenza tra persone provenienti da paesi lontani, si adatta similmente ad altri ambiti e, secondo uno sguardo comunque umano, a quello naturale[22]. E’ possibile dunque rintracciare un atteggiamento mimetico interculturale: dove viga una propensione a seguire i fili della propria conoscenza in coloro ed in ciò che pare distante, ritrovando quei fili nei particolari comuni o simili dell’altro. Se la percezione dell’affinità implica qualche forma di consapevolezza ad finis, ai confini che si toccano, del confine di contatto in termini gestaltici, le facoltà mimetiche interculturali si esercitano nella ricerca di altri spazi e punti in cui quella consapevolezza avvenga.
Ritornando al valore rappresentativo delle facoltà mimetiche, elaborato diversamente nelle tecniche espressive olistiche, o nella Gestalt e nella PNL, vorrei sottolineare l’accrescimento di competenze che può sviluppare nel counselor, nel mediatore, qualora venga inteso come potenziale già presente, reciprocamente. Quando nei gruppi il terapeuta, o il conduttore, chiede ad una persona di interpretare, nel senso della raffigurazione, un personaggio richiamato da chi ha portato una situazione, con il desiderio di approfondirne o migliorarne la percezione, attinge con rispetto alle qualità esistenti, alla finzione che avvicina il reale. L’immedesimazione, del resto, avviene anche in coloro che osservano. E, se il lavoro sviluppa nel tempo una dimensione significativa, coinvolge anche una parte personale di crescita e trasformazione, una comune attenzione a cogliere e promuovere riflessi imitabili, mimetici, una capacità di rispecchiamento solidale ed evolutivo.
Un lavoro di Counseling interculturale. Ma
Prima di concludere queste riflessioni intorno al Counseling interculturale ritengo interessante introdurre una esemplificazione del lavoro attraverso la descrizione e la sintesi di un ciclo di colloqui con un migrante. Trattandosi di un richiedente asilo da me conosciuto poco dopo il suo arrivo in Italia e l’avvio di quella procedura, mantengo la particolare riservatezza imposta dalla materia nominando Ma la persona e, soprattutto, modificando alcuni dati caratteristici senza alterare eccessivamente l’esposizione.
A motivo dei limiti imposti dal presente articolo tralascio le specificazioni sulla materia d’asilo, pur costituendo essa la cornice di riferimento del caso stesso. Segnalo sinteticamente la fonte principale, la Convenzione di Ginevra del 1951[23], e il fatto che tale inquadramento comporta la necessità di trovare le corrispondenze tra la biografia e la norma internazionale. A volte questo processo risulta semplice e immediato, più frequentemente il richiedente asilo avvia numerosi adattamenti della propria storia, di quella della famiglia o del gruppo, all’interno della storia generale, degli avvenimenti indicati come causa della fuga. Questo avvio, con la posta in gioco del cammino futuro e il pericolo di tornare indietro, stimola una disposizione a ridefinire la propria biografia. Più precisamente la posta in gioco è un permesso di soggiorno e poi uno status, con tutte le vitali conseguenze di accesso o meno al vario mondo. Tali documenti formalizzano, nel caso dei rifugiati, una nuova identità. Le persone che chiedono asilo entrano in una trafila di cui loro stesse devono essere elementi attivi e propositivi, che in tempi molto rapidi e poi a lungo incide notevolmente su quelle identità.
Ma era stato segnalato dagli operatori che lo avevano accolto in uno stato di abbattimento e avevano percepito nelle sue parole la conferma del fragile stato emotivo quale conseguenza sul morale e sul personale senso della vita dopo i fatti che lo avevano indotto alla fuga dal suo paese. Ho incontrato Ma già sapendo di poter comunicare con lui in lingua francese. Mi sono presentato, ho ricordato la riservatezza del contesto e che tuttavia altri operatori avevano chiesto il mio intervento conoscendo alcune sue difficoltà, ho reso brevi informazioni sul mio ruolo e sulle attività. Egli ha reagito con un atteggiamento che mi è parso estremamente diffidente, pronunciando le frasi con un tono dimesso e sussurrato, spiegando presto di avere subito insieme ad altri grandi violenze, il carcere, persecuzioni personali estese ai familiari. Il racconto dell’uccisione del padre ha iniziato a scuoterlo e, mentre io appoggiavo la sua narrazione riformulando i contenuti da lui portati, si è bloccato ripetutamente rivivendo le fasi acute delle torture durante la prigionia[24]. Ho provato un sentimento di incertezza dovuto alla duplice inclinazione di Ma: da un lato raccontava accadimenti anche personali estremi, dall’altro non mostrava alcun desiderio di riservatezza. Ho cercato di stimolare la sua attenzione su ciò ottenendo da lui la rivendicazione della sua storia quale denuncia contro il paese d’origine.
Negli incontri successivi, da lui stesso richiesti, abbiamo approfondito la conoscenza della sua situazione. Principalmente egli aveva sofferto, secondo il suo resoconto, del clima di scontro e intimidazione in cui si era trovato coinvolto. La morte, causata dalle forze dell’ordine, di alcuni amici appartenenti alla sua stessa organizzazione ha coinciso con l’essere divenuto un ricercato nel suo paese. La morte del padre dopo le percosse per estorcere informazioni su Ma stesso aveva sviluppato in lui un senso di colpa verso tutta la famiglia; la fuga poi, liberandolo dalle sofferenze più immediate ed acute, lo aveva portato in una temporanea confusione, nell’incertezza, nella lontananza dal contesto conosciuto e dai contatti con gli affetti. In quegli incontri egli appariva molto triste e incline al pianto, affaticato dall’insonnia e dai pensieri ricorrenti sul passato. Affermava di non riuscire a scorgere alcuna possibilità e via d’uscita dal suo stato, di non riuscire a volere qualcosa in particolare. Ho portato allora la sua attenzione su ciò che mi aveva raccontato: la fuga per salvarsi. Questa basilare esperienza alludeva comunque ad una aspettativa. Ma ha espresso l’intenzione di proseguire i colloqui e ha segnalato un passaggio dalla diffidenza, dalla rabbia carica di serietà dell’avvio, alle domande sul futuro e alle richieste d’aiuto.
Tale percorso, fragile e incerto, ha trovato presto una difficoltà aggiuntiva. Dalle visite mediche eseguite da Ma a causa dei costanti dolori sono risultate le conseguenze del trattamento subito; particolarmente una menomazione non grave ma permanente. Tale consapevolezza, anziché aiutarlo a conoscere e porre i limiti del suo malessere, ha generato un effetto ulteriormente negativo sul suo umore, portandolo ad ipotizzare una sua vasta incapacità ad affrontare gli impegni e la realtà. In quel periodo ha abbandonato i corsi scolastici che aveva frequentato, ha ripetutamente lamentato disturbi del sonno e il desiderio di essere sostenuto con i farmaci. Ho lasciato spazio a quelle preoccupazioni e richieste, concordando con lui un ruolo diverso dell’aiuto e accettando di consultarmi con un medico. Ho considerato questa proposta anche come un suo modo di regalarsi del tempo: ha risposto affermativamente, esprimendo tuttavia la fatica dell’attesa. Desiderava trovare sollievo dall’insonnia, per il suo sbandamento, per le tristezze, il senso di vuoto e la mancanza di punti di riferimento, eppure ha accolto il trattamento con farmaci naturali. Le tisane per il sonno non hanno forse avuto un effetto diretto immediato, ma hanno favorito l’apertura di uno spazio in cui inserire altre richieste, altri interessi.
Ma ha ricordato l’importanza delle attività fisiche nella sua esperienza e ha avviato dei contatti; ha poi ripreso gli studi, sempre più intensamente, non solo della lingua ma anche con una finalità professionale. Abbiamo, come logica del percorso di Counseling e a motivo dei suoi impegni, diradato gli incontri, mentre lui consolidava le acquisizioni nella quotidianità. Altri momenti difficili si sono presentati, improvvisi o come logoranti incertezze nella condizione d’attesa, senza tuttavia distoglierlo dall’atteggiamento concreto e determinato che andava accuratamente interpretando secondo le sue possibilità ed esigenze. In una fase di importante consapevolezza, dopo che un tempo di maturazione era trascorso, egli ha chiesto di essere aiutato ad intraprendere un percorso di studi diverso da quello praticato nel suo paese, maggiormente orientato al risvolto professionale e ai suoi nuovi interessi. Nelle emozionanti motivazioni della richiesta ha sostenuto di essere stato aiutato, di aver compreso il valore e le grandi possibilità che si possono reciprocamente scambiare, di volere a sua volta impegnarsi professionalmente nell’aiuto.
Sull’attaccamento e il distacco
Le migrazioni hanno sempre un riferimento plurimo, sia in origine che nelle conseguenze, all’attaccamento e al distacco. Il riferimento al pensiero di Bowlby relativamente alla tematica messa qui in rilievo, in sintesi, aggiunge importanti variazioni di prospettiva. La partenza da un luogo e da una cerchia di affetti può essere improvvisa o più o meno lungamente preparata, ma raramente è casuale. A volte l’attaccamento è fortissimo, altre volte viene scoperto solo all’atto della separazione, o poco oltre. Non è possibile stabilire in anticipo, e ancor meno una volta per tutte, il significato del viaggio, ma si può ricavare con un certa regolarità la sua valenza tanto individuale quanto di gruppo. Nella lontananza il migrante scopre spesso un attaccamento che rende o meno sensata la vita stessa. Così Tournier fa riflettere il naufrago Robinson: Tutti quelli che mi hanno conosciuto, tutti senza eccezione, mi credono morto. La mia personale convinzione di esistere ha contro di sé l’umanità. Qualunque cosa io faccia, non impedirò che nella mente della totalità degli uomini vi sia l’immagine del cadavere di Robinson. Questo già basta – non certo ad uccidermi – ma a respingermi al confine della vita, in un luogo sospeso tra cielo e inferno, nel limbo, insomma. Speranza o il limbo del Pacifico[25].
Il legame con le persone, le terre e le situazioni conosciute può temperare la percezione di limbo che comunque la migrazione tende a riprodurre. In questo legame si collocano certamente le notizie, i racconti, gli aggiornamenti sulle vite e sugli eventi, sulle trasformazioni. L’esperienza migratoria è caratterizzata dalle comunicazioni, informali e ufficiali, e dalle trasformazioni. Se, dunque, ha influenza una dimensione più generale dello sforzo e il senso viene garantito dall’attaccamento residuo oppure rinvigorito, si presenta anche lo stato di avanzamento o di realizzazione del progetto. Chi migra, singolarmente o in gruppo, porta il peso della dimostrazione di un miglioramento, di un avanzamento. Frequentemente il legame si trasforma nel tempo, manifestando un doppio andamento: affetti, nostalgia, idealizzazione da un lato, e dall’altro responsabilità, ansia, oppressione.
I migranti, nell’esperienza che io ho acquisito dai racconti e dalle vicinanze, vivono o esprimono sovente un vario distacco, se non proprio un’avversione, rispetto ai luoghi d’arrivo. Ma ancor più, e anche quando provano un’adesione convinta al nuovo paese, si lasciano facilmente accompagnare dal pensiero del ritorno. Questo produce un’oscillazione tra il desiderio di abbandonare ciò che hanno raggiunto, percorrendo a ritroso il viaggio e immaginando l’annullamento delle sofferenze, e quello di staccarsi definitivamente dall’origine, dal senso di stringente responsabilità e dalla nostalgia. Un doppio distacco che talvolta viene agito con il ricorso a ripetuti viaggi, o con andate e ritorni provvisoriamente definitivi, a tentativi, con lunghe attese. Sospensioni lunghe una vita, magari solo mentalmente e intimamente rappresentate; oppure improvvisamente riaffioranti, come in Robinson dopo l’incontro con la nave di passaggio e la decisione di non abbandonare la sua isola[26].
Tournier instilla fino in fondo, come anche Arguedas, un malinconico senso d’interrogazione sull’abbandono non limitato alle terre, alle civiltà e alle città, quanto sul complesso della vita. Un invito pieno di stimoli e suggerimenti ad esplorare nel nostro immaginario, forse insieme ai migranti, le variazioni sui sentimenti dell’attaccamento e del distacco. Un vasto bisogno di raccontare e raffigurare, di passare queste immagini e altre ancora, quasi di percorrere per altre vie la meraviglia, l’angoscia, l’avventura del viaggio e del viaggio umano.
Il racconto del viaggio, la sua rappresentazione o l’inedita esplorazione diventano opportunamente strumenti del Counseling interculturale rivolto a coloro che, dentro tale movimento, restano intrappolati. A costoro, rallentati o confusi dalla stessa dinamica migratoria, i viaggi forniscono scelte narrative e figurative in quanto tema del percorso, di un ciclo di colloqui o di un cammino di crescita personale. Si può assistere così alla creatività liberata in un lavoro di Counseling capace di far affiorare i racconti tra qua e là; e queste stesse riformulazioni e consapevolezze agiscono beneficamente sulle nuove relazioni personali e ambientali.
Quando le trappole eventualmente innescate nella migrazione si riproducono, distorcendo e riducendo le prospettive della persona, le potenzialità della proposta possono persino aumentare, richiedendo tuttavia al counselor un grado d’attenzione specifico. Egli infatti, se efficace, diviene figura di nuovo attaccamento da parte del migrante. L’ampliamento del modello conoscitivo ed esperienziale passa ancora attraverso l’equilibrio nella relazione, che l’operatore è chiamato a rinnovare per sé e per il migliore andamento dell’intervento, modificando le posizioni assunte in principio.
Il circolo disegnato tra attaccamento e distacco nelle vicende migratorie permette allora qualche considerazione riassuntiva. L’apertura di possibilità, introdotta inizialmente per incrociare con gli strumenti della psicologia umanistica il campo delle migrazioni, ha portato a delineare alcuni limiti. In un lavoro dove ci sono tante frontiere, di reticolati e immaginarie, in cui i racconti portano a viaggiare infinitamente, torna utile assumere i limiti come occasione di incontro e sperimentazione, come congruente offerta a partire da sé e spazio di accordo. In secondo luogo vale la concezione dinamica dei fenomeni migratori, avvicinandone l’essenza mobile e liberando le opportunità di movimento su diversi piani. Vi è poi la centralità della relazione, lungo una varietà di significati che avviano essi stessi ulteriori congiunzioni. Infine quel circolo richiama, grazie alla realizzazione della partenza e di un arrivo, alla loro pluralità e ai ritorni, la figura trasversale dell’attesa. Ogni migrazione si dispone al superamento dell’inerzia e, frequentemente, alla concretizzazione delle aspettative, contemporaneamente richiamando nuove attese. E’ anche ritrovando questa figura che la paziente opera del Counseling può portare i suoi frutti.
[1] Il Counseling ha le sue radici nella filosofia dell’incontro dei maestri dell’alterità, dove il circolo ermeneutico della fenomenologia esistenziale è basato sia sulla consapevolezza empatica che sulla dimensione intersoggettiva della relazione d’aiuto. Giusti E., 2003, Un approccio integrato al Counseling…, in Integrazione, Ed. Scientifiche ASPIC.
[2] Un approccio centrato sulla persona è basato sulla premessa che l’essere umano sia un organismo fondamentalmente degno di fiducia, capace di valutare la situazione interna ed esterna, di comprendere se stesso nei propri contenuti, di fare scelte essenziali riguardo ai successivi passi nella vita e di agire in base a queste scelte. (…) Una persona agevolmente può aiutare la liberazione di queste potenzialità, entrando in rapporto con l’altro come una persona reale che riconosce ed esprime i propri sentimenti; provando un interesse e un amore assolutamente non possessivi e, infine, comprendendo e accettando l’altrui mondo interiore. (pp. 21-22) Rogers C. R., 1978, Potere personale, Astrolabio.
[3] Mi riferisco con questi avverbi, d’ora in poi, ad un circolo variabile di sensi e sensazioni che emergeranno progressivamente e in parte, non essendo al centro dell’attenzione. Mantengo sempre il corsivo per segnalarne un uso particolarmente ampio, giustificato dall’applicazione alle tematiche migratorie. Mi piace ricordare che in linguistica gli avverbi sono chiamati modificanti; funzione che qui tendo a sottolineare. Per non generare troppe confusioni, e seguendo la mia dislocazione, ho mantenuto l’uso corrente di qua e là, secondo la percezione di un parlante nativo italiano. Tuttavia, sulle inversioni possibili è interessante Cortàzar J., Il gioco del mondo (Rayuela), il capolavoro in cui il fuoriuscito argentino inizia dall’altra parte, a Parigi dov’è e, nel ritorno a Buenos Aires, si ritrova da questa parte. Ma tutto è più stratificato, complesso e funambolico.
[4] Anche per la concezione delle maggiori potenzialità evolutive proprie dei sistemi aperti alle diversità e ai cambiamenti è fondamentale Bateson G., 2004,Verso un’ecologia della mente, Adelphi.
[5] Il mio contributo su ciò in Carlot I. Bombieri G., 2005, Indirizzi sconosciuti, e Carlot I. Longo F., 2006, Attraverso il centro, Genesidesign.
[6] Si può documentatamene sostenere che: Ogni migrante ha un suo profilo personale, le sue dinamiche psicologiche e le sue specificità biografiche. Molteplici sono gli eventi che possono caratterizzare le diverse fasi del processo migratorio, e altrettanto varia può essere l’esperienza che ogni individuo ha di tali eventi, la percezione che il migrante ha del paese d’origine, la propensione e le aspettative legate al ritorno, tratto da Fattori di rischio e di esclusione sociale, Schellenbaum P., 2004, OIM – IOM, Unità Psicosociale e di Integrazione Culturale.
[7] Losi N. Papadopoulos R., 2005, Costellazioni della violenza post-conflitto e approccio psico-sociale, OIM.
[8] Edelstein C.: Il Counseling Interculturale è una professione che si rivolge a persone (individui, gruppi, famiglie, comunità) appartenenti a gruppi minoritari con l’obiettivo di favorirne l’inserimento, l’adattamento e l’integrazione, di migliorarne la salute mentale e di dare supporto nell’affrontare crisi di transizione culturale tipiche dei processi migratori.
[9] Il tema è trasversale a moltissimi scritti, incontri, corsi. Ho utilizzato anche Giusti E., 2003, cit.
[10] L’arte relazionale del Counseling si fonda sull’abilità di offrire una forte presenza attiva – esserci consapevolmente – per entrare in contatto con la sofferenza psichica e il disagio emotivo ed esistenziale dell’altro, creare una cornice sicura ed accogliente entro la quale il paziente possa esprimersi e sentirsi accolto e contenuto, ed infine attivare le sue risorse intellettive ed emotive, insieme alla capacità di cambiamento e di adattamento creativo. Dunque si può parlare di arte relazionale, in cui: Il cambiamento trasformativo viene trasmesso nel contesto di un’esperienza emotiva di accoglienza e di orientamento dove le aspettative dell’operatore e quelle dell’utente condizionano decisamente gli esiti del Counseling. Giusti E., 2003, cit.
[11] Confermati dalle esperienze terapeutiche di Dubosc F. O., Elementi di psicoterapia interculturale, 2007, ringrazio l’autore per il confronto su un suo articolo di prossima pubblicazione.
[12] Tra i primi, splendidamente e malinconicamente, Kundera M., L’insostenibile leggerezza dell’essere, e i misteriosi riflessi dei ritorni in McCarthy C., Oltre il confine; per il secondo una citazione: Mio padre non riuscì mai a trovare un posto dove stabilirsi definitivamente (…). Conobbi con lui più di duecento paesi. Temeva le vallate calde e le attraversava soltanto di passaggio; si fermava qualche tempo nei paesi con clima temperato: Pampas, Huaytarà, Coracora, Puquio, Andahuaylas, Yauyos, Cangallo (p. 28). Ma mio padre decideva di andare da un paese all’altro, quando le montagne, i sentieri, i campi da gioco, il posto dove dormono gli uccelli, quando i particolari del paese cominciavano a far parte della memoria (p. 29). Fino a che un giorno mio padre mi confessò, con un’aria apparentemente più energica del solito, che il nostro pellegrinaggio sarebbe finito ad Abancay (…). Attraversammo l’Apurìmac, e vidi negli occhi azzurri e innocenti di mio padre l’espressione caratteristica che avevano quando lo scoramento gli faceva concepire la decisione di nuovi viaggi. Arguedas J. M., 1997, I fiumi profondi, Einaudi.
[13] Mi riferisco ancora all’etnopsichiatria e all’etnopsicoterapia, che forniscono uno sfondo in tutte queste considerazioni. In particolare Coppo P., 2003, Tra psiche e culture, Bollati Boringhieri.
[14] Una efficace cornice teorica e pratica è ora disponibile nel corposo contributo di Edelstein C., 2007, Il Counseling sistemico pluralista, Erickson.
[15] Per una ricognizione di ciò principalmente sul versante filosofico è interessante Pasqualotto G., 2003, East & West, Marsilio.
[16] Ancora su questo vale il versante etnopsicoterapeutico: Coppo P., 2003, Nathan T., 2003, Non siamo soli al mondo, Bollati Boringhieri.
[17] Giusti E., 1997, Psicoterapie: Denominatori comuni, Franco Angeli.
[18] Un riflesso dell’integrazione, con uno sfondo che riecheggia nell’attualità, si trova nel mito: L’architetto del re creò un’immensa rete che si estendeva nel tempo e nello spazio. A sua volta il tesoriere del re pose una perla luminosa e brillante in ogni nodo della rete, in modo che ogni singola perla fosse riflessa in ogni altra perla. Così ogni singola perla, ovvero ogni persona, ogni evento, conteneva tutta la rete di Indra, compreso tutto il tempo e tutto lo spazio. Quando riconosciamo di essere tutti perle brillanti nella rete di Indra, scopriamo che in ognuno di noi è contenuto l’intero corpo dell’universo. Poiché siamo tutti connessi nella rete di Indra, non ci sono limiti alle possibilità di entrare in contatto con altre persone nella nostra vita e nel nostro lavoro. (p. 109) Glassman B., 1997, Astrolabio.
[19] Benjamin W., 1995, Einaudi.
[20] Una tradizione vicina: Non odiare in cuor tuo il tuo fratello; correggi francamente il prossimo tuo, così non ti graverai di colpa per lui. (…) ama il prossimo tuo come te stesso, Levitico, 19, 17-18.
[21] Lasciatemi andare innanzi, – disse Carlotta, – per vedere se colgo dove volete arrivare. Come ogni cosa ha un rapporto con se stessa, così deve anche avere una relazione verso gli altri./E questa dev’essere diversa secondo la diversità delle nature, – proseguì subito Edoardo. (p. 42) Goethe W., 1996, Einaudi.
[22] Una testimonianza interessante di ciò, oltre alle ricerche di Goethe sui minerali e sui colori, e alle riflessioni dei teorici dell’omeopatia, è la teoria delle consociazioni tra le piante in agricoltura biologica; la quale studia i loro influssi benefici e non, reciprocamente. Ne deriva la possibilità di organizzare o riprodurre, con ispirazione mimetica, sistemi complessi anche in piccoli spazi, naturalmente.
[23] Il termine rifugiato si applicherà a colui (…) che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori del Paese di cui è cittadino e non possa, o non voglia, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese.
[24] Su questo punto opero una cancellazione. Pur tra lacrime e silenzi Ma mi ha esplicitamente messo a conoscenza, fin dal primo incontro, dei dettagli delle torture subite. Ripeterli ora renderebbe eccessivamente identificabile la storia d’asilo e la persona; inoltre il loro contenuto è certamente spiazzante e soverchia i limiti della presente trattazione.
[25] Tournier M., 1994 (p. 126).
[26] La gioia provata da Robinson nel riprendere possesso di quella terra che aveva creduto perduta per sempre si accordava col rosseggiare del tramonto. Il suo sollievo era immenso, eppure sentiva qualcosa di funebre in quella pace che lo attorniava. Più che ferito si sentiva invecchiato, come se la visita della Whitebird avesse decretato la fine di una giovinezza lunghissima e felice. Ma che importava? Ai primi bagliori dell’alba la nave inglese avrebbe salpato per riprendere la sua corsa errabonda, trascinata dalla fantasia del tenebroso comandante. Le acque della Baia della Salvezza stavano per richiudersi sulla scia della sola nave che in ventotto anni si fosse avvicinata a Speranza. Con parole velate, Robinson aveva lasciato capire di non desiderare che l’equipaggio della Whitebird rivelasse l’esistenza e la posizione dell’isoletta. Tale voto era troppo conforme all’indole del misterioso Hunter perché questi non lo facesse rispettare. Si sarebbe così chiusa per sempre una parentesi che aveva introdotto ventiquattr’ore di tumulto e disgregamento nell’eternità serena dei Dioscuri. Tournier M., 1994 (p. 237).