La conduzione nei contesti di Counseling e Psicoterapia – seconda parte
La struttura del “laboratorio” gestaltico.
Prendiamo ora come esempio l’organizzazione e la conduzione di un Workshop/laboratorio della durata di 2 h, esattamente come accade nella prova pratica dell’esame che gli allievi del Master “Gestalt Counseling” sostengono al termine del loro ciclo formativo.
In questo caso la conduzione è a cura di tre o quattro candidati/counselors per un gruppo di partecipanti che va dalle 12 alle 15 persone circa. I trainers in formazione vengono valutati da un supervisore sia nelle loro abilità di Counseling, sia nella loro capacità di cooperare per dar vita ad una conduzione coerente e fluida.
Nella fase di precontatto chi conduce ha il compito di costruire un contesto “contenitore” stabile e sicuro, anche grazie alla spiegazione e condivisione delle regole del gruppo stesso.
Ad esempio la cura degli spazi, gli orari e la struttura dell’incontro, sono particolari che vengono preparati per tempo in vista del workshop.
In questa fase di “accoglienza” i conduttori avranno cura di spiegare brevemente l’organizzazione del workshop e gli obiettivi che ci si propone di raggiungere: “nella prima parte faremo questo, nella seconda parte quest’altro, ecc. in altre parole si potrà anticipare quello che si farà e quello che non si farà, allo scopo di stimolare e rassicurare lo stesso tempo.
In questa fase il bisogno principale dei partecipanti è quello di “sciogliere il ghiaccio”, “ scaldarsi” e sentirsi al sicuro.
Chi conduce dovrà prestare attenzione ai bisogni dei singoli ed invitare chi avesse delle esigenze particolari ad esplicitarlo. Questi bisogni possono essere di tipo fisico, (se va bene la temperatura della stanza, la comodità o scomodità, ecc.), o di tipo emotivo ( se si è può essere più o meno predisposti ad iniziare l’attività), o se si vuole comunicare qualcosa al gruppo o ai conduttori.
L’importanza di prestare attenzione a questi aspetti è tale sia per gli utenti che per gli agevolatori per fare in modo che ciascuno possa dedicare poi tutta la sua concentrazione ed energia a quello che sta per intraprendere.
Qualora alcuni aspetti, soprattutto emotivi e personali, non possano trovare subito una soluzione, il semplice fatto di averci dedicato attanzione ed averli esplicitati ha un effetto calmante e facilitante per il prosieguo del lavoro.
Per dare il necessario senso di sicurezza ai partecipanti è necessario che i conduttori abbiano già lavorato all’interno del loro team sulla cooperazione, in maniera da chiarirsi rispetto a potenziali malcontenti o fonti di conflitto che potrebbero incidere negativamente sulla conduzione stessa. Questo è particolarmente importante quando a condurre si è in tre o quattro. Le dinamiche relative al potere già esaminate non sono infrequenti e vanno risolte per tempo con l’aiuto del supervisore.
Fasi del Contatto e Contatto pieno.
Sono le fasi centrali del laboratorio in cui i partecipanti diventano maggiormente protagonisti ed in primo piano rispetto al conduttore.
In questa fase hanno luogo attivazioni, esperienze, piccoli lavori individuali, con ampio utilizzo di tecniche espressive di derivazione gestaltica (F. Perls).
Mentre nella fase di pre-contatto è in primo piano chi conduce, nelle fasi di contatto e post-contatto, sono i singoli partecipanti e il gruppo nel suo insieme ad essere in “figura”.
Lo scopo di queste due fasi è quello di far entrare i partecipanti in contatto con parti di sé, ed allargare la conoscenza di se stessi e delle proprie potenzialità.
In questa fase si possono utilizzare materiali per la realizzazione di disegni o piccole rappresentazioni artistiche; si può utilizzare il corpo attraverso il movimento o con esercizi di bioenergetica; si possono condurre delle visualizzatori guidate o esercizi di rilassamento.
Lo scopo ultimo del laboratorio è quello di stimolare la presa di consapevolezza e di far sperimentare il nuovo oltre la personale soglia di sicurezza (zona di comfort) del partecipante favorendo allo stesso tempo favorire la presa di coscienza delle risorse già in possesso o da potenziare.
Supponiamo di voler stimolare un lavoro sulla conoscenza di se stessi. In questo caso è necessario che ciascuno dei partecipanti venga portato ad individuare e riconoscere delle parti di sé.
Come è possibile aiutare i clienti ad individuare/ conoscere delle parti di sé?
A questo proposito lo strumento principe nel lavoro con la Gestalt è quello della PROIEZIONE.
In Gestalt si intende per proiezione quel particolare meccanismo di difesa che si mette in atto quando non si vuole prendere coscienza di parti di sè che non si accettano. Attraverso il meccanismo della proiezione si vedono in altri cose che appartengono a se stessi.
Non è possibile riconoscere dalle parti di sé se prima non le proiettano fuori, così come le immagini di un film non possono essere riconosciute finché rimangono nella cinepresa.
La proiezione diventa pertanto uno strumento utile per fare uscire allo scoperto delle parti che inizialmente non vengono riconosciute come proprie.
Le modalità che si possono seguire per facilitare la proiezione sono diverse: supponiamo di scegliere di condurre una visualizzazione guidata. Dopo aver facilitato il rilassamento psicofisico dei partecipanti li si può portare ad esempio a visualizzarsi in un posto tranquillo, senza tuttavia dare delle indicazioni precise proprio per fare in modo che ciascuno ci metta (proietti) il più possibile del “proprio” nell’ambiente che visualizza.
A questo punto si possono dare indicazioni di visualizzare un elemento della natura, o di incontrare un vecchio saggio, o di entrare in un castello alla ricerca di segreti o doni. In ciascuno di questi casi ciascun partecipante “proietterà” le proprie aspettative, i propri desideri, significati personali, parti di sé.
Queste parti di sé in genere si caratterizzano in polarità, forze, caratteristiche complementari tra di loro. Ad esempio: luce/ombra, maschera/ sè autentico, genitore /bambino, razionale/emozionale.
È possibile riappropriarsi di parti di sé prima attraverso il riconoscimento delle stesse e successivamente attraverso la conoscenza e/o accettazione di quel che ci piace o non ci piace delle stesse, esattamente come guardandoci allo specchio è possibile sapere se ci piaciamo o meno.
E’ un dato di fatto che il meccanismo proiettivo permette ai conduttori di superare alcune limitazioni iniziali rispetto al fatto di non conoscere i partecipanti, poiché la proiezione dà modo ai partecipanti di svelare tratti della propria personalità.
La proiezione può essere diretta su se stessi, su un’altra persona o oggetto. Vediamo qualche esempio.
Si può facilmente far “proiettare” ai partecipanti dando indicazioni di inventare una storia o un racconto partendo da alcune semplici indicazioni di base. Si vedrà che ognuno inserirà nel racconto parti di sé di cui può prendere coscienza.
Un’altra modalità per facilitare la proiezione è quella di lavorare con un oggetto e chiedere ai partecipanti di attribuire a quest’oggetto pensieri, intenzioni o caratteristiche.
Chi conduce può stimolare la proiezione chiedendo ad un partecipante di immaginare cosa stia pensando di sé il gruppo o qualcuno dei sui componenti.
Questa fase si chiama del “contatto” proprio per il fatto che il partecipante ha l’occasione di entrare in “contatto” con parti di sé o di altri.
In questa fase i conduttori portano degli stimoli che facilitino questa presa di contatto.
La fase di contatto pieno è quella in cui il coinvolgimento emotivo è all’apice. Da una parte i conduttori del gruppo entrano nel vivo dell’esperienza proposta, dall’altra i partecipanti possono esprimersi pienamente e autenticamente.
E’ utile a questo punto fare una distinzione tra la fase di conduzione del gruppo e l’esperienza del singolo partecipante, che attraversa soggetivamente le stesse fasi.
Infatti mentre siamo nel clou dell’esperienza non è detto che tutti siano allineati a livello emotivo. E’ possibile che qualche partecipante viva un’esperienza di contatto, ma che per qualche motivo o “resistenza” non viva pienamente il contatto pieno, non lasciandosi andare all’esperienza.
E’ altresì molto importante a questo punto che i trainers non confondano lo strumento con il fine e non permettere che l’attenzione ai materiali e alle specifiche modalità più o meno spettacolari di conduzione distolgano dal lavoro vero e proprio, ovvero la possibilità di far lavorare i partecipanti su di sé affinché vi sia maggiore acquisizione di consapevolezza, occasioni per accettare se stessi prima ed avviare eventualmente un processo di trasformazione e cambiamento.
E’ quindi importante che le varie fasi del workshop mantengano una coerenza forte anche quando sono condotte in succesione da trainers diversi.
Post-contatto
Questa è la fase conclusiva del workshop di importanza cruciale affinchè ogni partecipante possa far tesoro delle nuove scoperte e le “conquiste” su se stesso ponendole come premesse per una fase di cambiamento e trasformazione.
Una delle domande che vengono poste in questa fase è: “cosa ti porti a casa da quest’esperienza?” E la domanda implicita a cui risponde il partecipante è: “chi sono? chi sono diventato dopo quest’esperienza, cosa rappresenta per me?”
E’ in questa fase di post-contatto che i conduttori dimostrano le abilità fondamentali di Counseling attraverso l’ascolto attivo, l’uso della riformulazione non interpretativa, un sapiente utilizzo del feedback fenomenologico.
Nella mia personale esperienza di formatore e supervisore di Counselor che si accingono a sostenere la prova pratica di conduzione di un gruppo nell’ambito del Master “Gestalt Counseling”, apprezzo molto quando questa fase di post-contatto viene condotta in maniera coordinata da tutti i trainers. Infatti, lungi dal considerare questa fase come quella dei “saluti finali”, invito costantemente i miei allievi ad esprimere grande attenzione verso le parole dei partecipanti e saper stimolare in loro la comunicazione autentica del proprio vissuto all’interno del workshop. In questo modo è possibile tenere vivo il clima e la “tensione energetica” di questa parte finale.
In questo tipo di workshop/esame non è prudente né possibile per motivi di tempo, fare dei lavori individuali approfonditi; allo stesso tempo e, proprio per questo, risulta molto significativo l’utilizzo di tecniche espressive per chiudere delle microgestalt lasciate ancora aperte o dire una parola di apprezzamento ad un compagno guardandolo negli occhi. A volte è possibile per un partecipante vivere, pur nella fase di post-contatto di gruppo, delle personali e soggettive minifasi di contatto e contatto pieno che aiutono a dare completezza all’esperienza.
Conclusioni
In questo articolo ho inizialmente analizzato le fasi di vita di un gruppo di evoluzione e crescita personale secondo il modello si Schutz (inserimento, controllo, affetto) e, successivamente, durante la spiegazione del modello della Gestalt, ho focalizzato maggiormente l’attenzione su un gruppo che si svolga in un intervallo di tempo limitato e in una unica sessione (vedi workshop o maratone residenziali).
E’ importante sottolineare che, mentre il modello di Schutz si applica ai gruppi con un intervallo di vita più esteso, il modello del Gestalt Counseling si applica ad entrambi i contesti, essendo un “pattern” di lettura dei processi esperienziali applicabile ai più svariati contesti.
Dott. Elvino Miali
Medico psicoterapeuta
www.aspicvenezia.org
Bibliografia
Giusti E., Nardini C., Gruppi pluralistici – Ed. Sovera
Schutz W. C., I gruppi di incontro, nozioni fondamentali – Celuc libri Milano
Rogers C., I gruppi di incontro – Ed. Astrolabio
Giusti E., D’Ascoli A., La terapia in gruppo – Quaderni ASPIC
Feder B. Ronall R., Oltre la sedia bollente Ed. scientifiche Magi
Zinker J. Processi creativi in Gestalt Therapy – Ed. F. Angeli
Vopel W. K., Manuale per operatori di gruppo – Ed. Elle Di Ci
A cura di:
Elvino Miali, medico psicoterapeuta,
riceve a Venezia Mestre
in via Carducci 13b, tel 041 950942
elvino.miali@gmail.com